(60) La dignidad de la mujer se vende por palabrasLa dignità della donna si vende per parola

Hace tiempo que dejé de hacerle caso a los sermones diarios con los que – desde cualquier latitud del espectro ideológico – muchos periódicos pretenden, cada mañana, impartir doctrina mientras damos cuenta de un café con leche. Son sesudos textos que nos indican ”su” ortodoxia de “nuestros” comportamientos, que pretenden llevar la luz en las penumbras de nuestras dudas y que nos dan lecciones magistrales de ética, de comportamientos morales y del respeto de un sinfín de altisonantes derechos.

  Luego ocurre que esos mismos periódicos – a página treinta y seis, página par y en el bajo de la primera columna, para que la tapemos con el pulgar – esconden una noticia que molesta al gran e influyente amigo del editor. También entierran, entre eufemismos y en la última de Sociedad, el tropiezo judicial de uno de los principales anunciantes que garantiza parte de la tarta publicitaria. Y no le hacen asco al reportaje sobre la enésima inversión del productor de tecnologías de doble uso – civil y militar, para entendernos – que tiene sus mejores clientes entre los gerifaltes de países de un más que dudoso respeto de los valores más elementales. El listado de contradicciones, corriendo aquí un tupido velo sobre los compromisos con la política, no puede ni debe olvidar las páginas de los anuncios por palabras, donde la mercancía, barata y muy a menudo explotada, es carne femenina expuesta en los escaparates de la prostitución al alcance de un número de teléfono.

  En estas horas es noticia que el Consejo de Estado, con opinión no vinculante, se ha pronunciado. Constata el fracaso de la tan cacareada autorregulación y afirma que a los medios de información, a los que se aprovechan de la suculenta tarta económica de ese género de anuncios, habrá que obligarlos por la vía legal. Es decir, que no queda más remedio que plantearse la prohibición de los anuncios que describen, exaltan, promueven y le ponen precio a los abismos en los que ha precipitado la dignidad de muchas mujeres, esas que, autónomamente o subyugadas por organizaciones criminales, venden su cuerpo por piezas o al por mayor. A menudo vemos esos anuncios publicados unas cuantas páginas después de un sesudo editorial o de una columna muy moral o muy “progre” – tanto monta…–  que a lo mejor nos está abroncando o sermoneando con relación a lo poco que hemos avanzado en el respeto de la dignidad del ser humano, sobre todo si ese ser humano es mujer.

  Pero claro, la publicidad es “parte de la libertad de expresión”, “el cuerpo es mío”, “la prostitución es el más antiguo oficio del mundo”, “esto es lo que hay y es inútil negarlo”, “no se puede renunciar a estos ingresos”. Muchas explicaciones, justificaciones, coartadas, una enrevesada y sin embargo clarísima ceremonia de la confusión en la que se argumenta lo “inargumentable”, donde la hipocresía aparece con todo su plumero de oportunismos y de frío cálculo económico. Dejémonos de ética, de dignidad y de moral, lo que cuenta es la cuenta de resultados.

  Pues ya lo ven. Moralistas y progres, los “gurús” del pensamiento único y también los de las ideas fluctuantes, a menudo son los extremos del mismo círculo. Como las alas de un avión de geometría variable, tienen la inmensa ductilidad de moldear ideas y principio y de vender sus axiomas como verdad revelada. Lo hacen para que los incautos del rebaño, los que compran sólo un periódico – y lo compran no para contrastar, más bien para reafirmar la pertenencia a una tendencia o a una moda ideológica, sin demasiadas preguntas – se sientan avalados, no importa si también engañados civil, humana y moralmente. Eso no entra en los cálculos de la cuenta de resultados.

  Hay momentos en los que llamarme periodista me suena como un insulto y tengo ganas de mandar todo y todos a tomar viento fresco. Pero no, siempre me queda una vía de escape: soltar un “gallo” en el coro y pedir perdón a muchos seres humanos, sobre todo a muchas mujeres que son simples asientos en las cuentas de un editor. Y en las dobleces de muchas columnas y editoriales, escritos – ¡qué vergüenza! – por periodistas.        

È da qualche tempo che ho smesso di prestare attenzione ai sermoni quotidiani con cui – da qualsiasi latitudine dello spettro ideologico – molti giornali pretendono, ogni mattina, d’impartire dottrina mentre ci confrontiamo con un caffellatte o un cappuccino. Si tratta di testi pretenziosi che ci indicano la “loro” ortodossia dei “nostri” comportamenti, che pretendono di fare luce nella penombra dei nostri dubbi e che ci propinano solenni lezioni magistrali di etica, di comportamenti morali e sul rispetto di una miriade di altisonanti diritti.

  Accade poi che quegli stessi giornali – a pagina trentasei, una pagina pari e in basso nella prima colonna, affinché la possiamo occultare con il pollice – nascondono una notizia molesta per l’influente amico dell’editore. Seppelliscono pure, tra eufemismi e nell’ultima di Costume e Società, lo scivolone con strascico giudiziario di uno dei principali inserzionisti, uno di quelli che garantiscono gran parte della torta pubblicitaria. Quegli stessi giornali non hanno pudore nella pubblicazione di un reportage sull’ennesimo investimento del produttore di tecnologie dal doppio uso – civili e militari, per essere chiari – che magari annovera tra i principali clienti despoti di paesi in cui è sospeso il rispetto dei valori più elementari. La lista delle contraddizioni, e qui sorvoliamo sulle commistioni con la politica, non può né deve dimenticare le pagine degli annunci per parola, dove la mercanzia, a prezzo di saldo e molto spesso sfruttata, è carne di donna esposta negli scaffali di una prostituzione a tiro di telefono.

  È di queste ore la notizia che il Consiglio di Stato spagnolo, con opinione non vincolante, si è pronunciato. Ha constatato il fallimento della tanto sperata autoregolamentazione e afferma che alle testate, a quelle che lucrano della succulenta torta economica di quel genere di annunci, si dovrebbe imporre la proibizione attraverso una legge. Vale a dire, non c’è altra possibilità se non quella di pensare al divieto di pubblicare annunci che descrivono, esaltano, promuovono e fissano un prezzo agli abissi in cui precipita la dignità di molte donne, quelle che, autonomamente o soggiogate da organizzazioni criminose, vendono il proprio corpo a pezzi o all’ingrosso. Troppo spesso vediamo quegli annunci pubblicati alcune pagine dopo quella di un solenne editoriale o di una colonna d’opinione carica di morale o molto “progressista” – frequentemente, facce di una stessa o simile medaglia – che ha la spudoratezza di ammonirci e propinarci un sermone in relazione a quanto poco si è avanzato nel rispetto della dignità dell’essere umano, soprattutto quando quell’essere umano è donna.

  Già, ma la pubblicità è “parte della libertà d’espressione”, “il corpo è mio”, “la prostituzione è la più antica attività del mondo”, “questo è sotto gli occhi di tutti ed è inutile negarlo”, “non si può rinunciare a queste entrate”. Molte spiegazioni, giustificazioni, alibi, una contorta ma anche chiarissima cerimonia della confusione nella quale si argomenta l’improponibile, dove l’ipocrisia appare con tutto il suo codazzo di opportunismo e di freddo calcolo economico. Per favore, lasciamo stare l’etica, la dignità e la morale, ciò che conta è il bilancio, il conto profitti e perdite.

  Lo vedete? Moralisti e “progressisti”, i guru del pensiero unico e quelli delle idee fluttuanti, spesso sono gli estremi dello stesso circolo. Come le ali di un aereo a geometria variabile, possiedono una grande duttilità per modellare idee e principi per poi sbolognarli come verità rivelata. E lo fanno affinché gli incauti del gregge, chi compra solo un giornale  – e non lo compra per confrontare idee, bensì per riaffermare l’appartenenza a una tendenza o a una moda ideologica, senza porsi troppi interrogativi – si sentano avallati, non importa se anche ingannati civilmente, umanamente e moralmente. Tutto ciò non rientra nei calcoli del conto profitti e perdite.

  Ci sono momenti in cui definirmi giornalista mi suona come un insulto e ho voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. No, non è il caso. Mi resta pur sempre una via di fuga, quella di stonare nel coro e saper chiedere il perdono a molti esseri umani, soprattutto a molte donne che sono semplici appunti contabili nel bilancio di un editore. E pure nelle ipocrisie di molte colonne ed editoriali, scritti – che vergogna! – da giornalisti.