Si he nacido libre, en una democracia, se lo debo a la resistencia antifascista, a la lucha de la sociedad civil que vio, codo con codo, a católicos y comunistas, a socialistas y liberales, pelear por la libertad. Y se lo debo a esas decenas de miles de norteamericanos y sus aliados que desembarcaron en Normandía, en Anzio, en Sicilia, soldados que en las rotativas de mi periódico imprimieron ediciones de Star and Stripes y que donaron sus vidas para que yo, entre muchos, fuera libre. Por eso – cada uno es hijo de su propia historia, y también de su propia histeria – cada vez que paso por las cercanías de Montecassino o que vuelvo entre las miles de cruces blancas de le cementerios normandos, me quito idealmente el sombrero. Por eso, y no sólo por eso, como la izquierda, el centro y la derecha italiana en su mayoría, nunca seré antinorteamericano.
Y sin embargo puedo ponerme duro, mantengo la capacidad de enfadarme, indignarme, cabrearme, cuando en los Estados Unidos ocurren, como en otros lares, cosas que me suscitan rabia y rechazo. Hoy, una noticia que publican muchos periódicos me llama la atención y me indigna y así me exprese con Pepa Fernández en su “No es un día cualquiera” de Radio Nacional. Ha habido, hay y habrá más graves, pero ésta no deja de enfadarme y mucho. Es la historia de dos hermanas, negras, que fueron condenadas a cadena perpetua y que estuvieron 16 años en la cárcel por un robo cuyo botín se estimó en 11 dólares. Una barbaridad, una barbaridad del Missisipi. Y lo que redunda la barbaridad es que ahora se las libera no por el despropósito de la pena, más bien porque una de la dos dona a la hermana, gravemente enferma, uno de sus riñones. ¡Qué bien, qué magnanimidad!
Pero ¿saben lo que más me indigna? Que no tengo el recuerdo, y sí que he buceado archivos, de que mis compañeros de muchos medios, hace tres lustros, me dieran la noticia de esa impresentable condena. Para permitirme, a mí y a muchos, indignarme a tiempo, cuando a lo mejor muchos con mucho ruido hubiésemos podido intentar que alguien tomara conciencia y se movilizara para rectificar la injusticia de una justicia que a menudo es sinónimo de venganza. Venganza social, pero siempre venganza.
Pues eso. Ya sé que hay todos los días atropellos mucho más graves. Pero este que ha destrozado la vida de dos hermanas me ha llegado hoy al corazón y me ha hecho reflexionar sobre nuestra profesión. Que es la de informar. A tiempo, cuando todavía estamos a tiempo.
Se sono nato libero, in una democrazia, lo devo alla resistenza antifascista, alla lotta della società civile che vide, a gomito a gomito, cattolici e comunisti, socialisti e liberali, combattere per la libertà. Lo devo anche a quelle decine di migliaia di americani e loro alleati che sbarcarono in Normandia, ad Anzio, in Sicilia, soldati che nelle rotative del mio giornale stamparono edizioni di Star and Stripes e che donarono le proprie vite affinché io, tra tanti, fossi libero. Per questo – ciascuno è figlio della propria storia, ed anche delle proprie isterie – ogni qual volta passo nelle vicinanze di Montecassino, o quando rivisito le migliaia di croci bianche dei cimiteri normanni, mi levo idealmente il cappello. Per questi motivi, e non solo per questi, come la sinistra, il centro e la destra in Italia, non sarò mai antiamericano.
Ciò nonostante, posso diventare duro, conservo tutta la capacità di arrabbiarmi, indignarmi, incavolarmi, quando negli Stati Uniti avvengono, come in altri luoghi, fatti che in me suscitano rabbia e ripudio. Oggi, una notizia riportata da molti giornali ha richiamato la mia attenzione e mi ha indignato e così mi sono espresso con Pepa Fernández nel suo “No es un día cualquiera” in Radio Nacional de España. Ci sono state, ci sono e ci saranno fatti più gravi, ma questa non può non farmi arrabbiare, molto. È la storia di due sorelle, nere, che furono condannate all’ergastolo e hanno scontato 16 anni di reclusione per un furto il cui bottino fu stimato intorno agli 11 dollari. Un’atrocità, un’atrocità del Mississippi. E ciò che la aggrava è che ora non sono state liberate per il riconoscimento dello sproposito della pena, ma perché una delle donne ha donato uno de propri reni alla sorella gravemente inferma. Bene! Quale magnanimità!
In realtà, volete sapere che cosa maggiormente m’indigna? Che non ricordo, eppure ho cercato negli archivi, che i miei colleghi di molti giornali, tre lustri addietro, mi abbiano fornito la notizia di quell’impresentabile condanna. Per permettere, a me come a molti, di indignarmi in tempo, quando forse molti e con molto rumore avremmo potuto tentare che qualcuno prendesse coscienza e si mobilizzasse per rettificare l’ingiustizia di una giustizia che spesso è sinonimo di vendetta. Vendetta sociale, ma pur sempre vendetta.
È tutto qui. So bene che ogni giorno assistiamo a ingiustizie forse più gravi. Ma questa che ha distrutto la vita di due sorelle mi è giunta al cuore e mi ha fatto riflettere sulla nostra professione. Che ha la vocazione d’informare. In tempo, quando siamo ancora in tempo.
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