(35) Periofotocopiodistas Giornafotocopioinchiestisti

Periodista de investigación, periodismo de investigación. Uyyy, como llenan la boca y el orgullo profesional estas definiciones que colocan inmediatamente al informador en un eslabón superior de la escala profesional. Pero ¿cuántas veces se trata de auténtica investigación?

  Ya sé que la investigación periodística existe, que se ha practicado y se practica, que a menudo cuesta sangre, sudor y también lágrimas en el proceso que lleva a revelar lo sucio, lo tapado, todo lo abominable que pueda haber en las conductas humanas, sobre todo en las de los responsables de la cosa pública. Pero de allí a ponerle el sello de “investigación” a todo lo que se publica, pues pasa un trecho muy muy largo.

  Empleados rencorosos, familiares que se aborrecen, rivalidades de todo tipo, sobre todo las políticas y económicas, muchos factores concurren en la “producción” de dosieres o en levantamiento de sustanciales liebres que siguiéndolas conducen sin mucha dificultad al material útil para confeccionar un buen serial, con el suficiente morbo para que se quede un tiempo en primera plana.

  Pues seamos humildes y reconozcamos que muchos trabajos que escribimos o leemos por allí, incluidos los buenos, muy buenos y dignos de admiración, son sencillamente la recopilación y la puesta en limpio de lo que ha producido la fotocopiadora de un resentido o del promotor de una campaña de descrédito que obedece a intereses de la más disparatada naturaleza. Es decir, admitida la licitud y la necesidad de informar a la sociedad, admitamos que muchas veces es una mano innoble la que alcanza el material hasta la redacción. Y el periodista “de investigación” es sólo un cartero en la segunda fase de una operación que a lo mejor ni se le hubiese ocurrido.

 

Giornalista “inchiestista”, giornalismo d’inchiesta. Caspita, come riempiono la bocca e l’orgoglio professionale queste definizioni che collocano immediatamente il giornalista su un gradino superiore della scala professionale. Va bene, ma in quante occasioni si tratta di autentica indagine?

  Sì, so bene che l’inchiesta giornalistica esiste, che si è praticata e si pratica, che molto spesso costa sangue, sudore e pure lacrime, nel processo che conduce alla rivelazione dello sporco, dell’occulto, di tutto ciò che di riprovevole e abominevole può esserci nelle condotte umane, soprattutto quelle di chi dovrebbe servire la “cosa pubblica”. Già, ma da lì ad apporre il marchio di “inchiesta” a tutto ciò che si pubblica, ebbene, le distanze ci sono e come.

  Dipendenti risentiti, familiari che si odiano, rivalità di qualsiasi tipo, soprattutto le politiche ed economiche, molti sono i fattori che concorrono alla “produzione” di dossier o alle “soffiate” che conducono senza troppe difficoltà al materiale utile per confezionare una buona serie di articoli dalla morbosità sufficiente per mantenerli un po’ di tempo in primo piano.  

  Dovremmo però essere un po’ più umili e riconoscere che molti lavori che scriviamo o leggiamo qua e là, compresi quelli buoni, molto buoni e degni d’ammirazione, sono semplicemente la messa in ordine e in bella copia di ciò che ha prodotto la fotocopiatrice di un risentito o del promotore di una campagna di discredito che obbedisce a interessi di diversa natura. Vale a dire, ammessa la liceità e la necessità d’informare la società, che molte volte è una mano ignobile quella che porta il materiale in redazione. E il giornalista “inchiestista” fa quasi solo da postino nella seconda fase di un’operazione che forse non avrebbe mai concepito.